venerdì 10 luglio 2015

ANDRES ESCOBAR, QUANDO IL CALCIO NON E' SOLO UN GIOCO



2 Luglio 1994: una data indelebile di una delle pagine più nere nella storia calcistica e non della Colombia. 
In quel fatidico giorno, Andrés Escobar, capitano dei “Los Cafeteros“, viene freddato a colpi di pistola fuori da un locale di Medellin, la sua città natale.
La sua colpa? L’aver segnato l’autogol decisivo che ha permesso agli USA di battere la Colombia nella seconda partita del Mondiale negli States, sconfitta che ha sancito l’uscita prematura della sua nazionale dalla manifestazione.
La Colombia arrivava al Mondiale come una delle possibili sorprese. Aveva battuto l’anno precedente al Monumental di Buenos Aires 5 a 0 i padroni di casa dell’Argentina, e in rosa poteva contare su giocatori come Carlos Valderrama, detto “El Pibe”, Rincon, Valencia, Asprilla (che ha giocato in Italia) e, appunto, Escobar, che di quella squadra era il leader. 
Escobar era un difensore moderno, bello da vedere e soprattutto bravo: lì dietro comandava lui.
Sacchi, dopo averlo avuto contro in finale di Coppa Intercontinentale, disse: “Questo me lo compro domani se si può”.
La Colombia però aveva iniziato male il Mondiale. Nel match d'esordio contro la Romania era stata messa ko da tre gol di Raducioiu. Il 22 giugno il secondo incontro, avversario i padroni di casa degli Stati Uniti. Al 34' del primo tempo, su un cross sbagliato del mediano statunitense Harkes, Escobar interviene in spaccata all'altezza del dischetto del rigore deviando il pallone, destinato al fondo campo, al di là della propria porta, difesa da Cordoba. Escobar rimane a lungo disteso sull'erba, impietrito dallo sfortunato episodio.


Sui giornali colombiani, all’indomani della sconfitta, Andrés scrisse:” Sono il più deluso di tutti, deluso come voi. Signori però, la Colombia, e soprattutto la vita, continua.”.
Per Escobar, purtroppo, non fu così.
Tornò nella sua casa di Medellin ma, in cuor suo, continuava a pensare a quel Mondiale che, con il senno di poi, non avrebbe mai voluto giocare. Non era più il solito ragazzo solare, era giù di morale a tal punto che la sua ragazza non lo riconosceva più. Una sera, per cercare un po’ di spensieratezza, decise di uscire, e andò in un locale: “El Indio”. Nella città la situazione non era delle migliori: da qualche mese era morto il grande sovrano del narcotraffico, Pablo Escobar, in una sparatoria con la polizia, e, come spesso succede, con la morte di una grande monarca, si crea un clima di tensione e inquietudine.
In quella discoteca c’erano alcuni individui appartenenti ad una famiglia che puntava al trono nel mondo della narcotraffico, che iniziarono ad apostrofare il giocatore. Andrés capì che non era il caso di rimanere lì e decise di tornare a casa.
Nel parcheggio de “El Indio” però è avvicinato da un gruppo di uomini che sembravano attenderlo e che iniziano ad aggredirlo con insulti. Gli ricordavano che loro e molta altra gente in Colombia avevano perso tantissimi soldi, scommettendo sulla loro fortissima squadra. Si scatena così una discussione ai limiti della rissa, incentrata proprio sull'autogol in cui è incappato il difensore nella partita dell'esclusione dalla Coppa.
Ma la discussione dura poco, perché gli uomini passano subito dalle parole ai fatti. Estratte le pistole, fanno fuoco a ripetizione su Escobar, che viene trasportato da un taxi all'ospedale di Las Palmas. Inutilmente, perché ci arriverà cadavere. Gli uomini fuggono poi a bordo di due fuoristrada, uno dei quali, una Toyota, viene ritrovato più tardi dalla polizia, abbandonato nei pressi dell'aeroporto. Si tratta di una jeep rubata e fornisce la certezza che l'agguato a Escobar era premeditato e organizzato dalla malavita. Andrés non viene ucciso, viene giustiziato: dodici spari,  ognuno seguito da un urlo: “Goal”. L’assassino si chiama Humberto Munoz Castro ed è stato condannato a 43 anni di carcere ma nel 2005 è uscito per buona condotta. Ha sempre sostenuto di non essere un sicario, affermando che il suo era un “raptus di delusione”.
Quel che è certo comunque, è che per tutti pagò il più bravo, umanamente e calcisticamente parlando: un vero grande leader.
Per anni, nessuno se l’è sentita di indossare la “Dos”, la maglia n.2 della Colombia, la maglia di Andrés.  Nessuno, fino ad un altro leader, un altro uomo con la U maiuscola: Ivan Ramiro Cordoba.
Nessuno, però, si è dimenticato di Andrés!





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