
In quel fatidico
giorno, Andrés Escobar, capitano
dei “Los Cafeteros“, viene freddato a colpi di pistola fuori da un locale di Medellin, la sua città natale.
La sua colpa?
L’aver segnato l’autogol decisivo che ha permesso agli USA di battere la
Colombia nella seconda partita del Mondiale
negli States, sconfitta che ha sancito l’uscita prematura della sua
nazionale dalla manifestazione.
La Colombia
arrivava al Mondiale come una delle possibili sorprese. Aveva battuto l’anno
precedente al Monumental di Buenos Aires 5 a 0 i padroni di casa
dell’Argentina, e in rosa poteva contare su giocatori come Carlos Valderrama, detto “El Pibe”, Rincon,
Valencia, Asprilla (che ha giocato in Italia) e, appunto, Escobar, che di
quella squadra era il leader.
Escobar era un
difensore moderno, bello da vedere e soprattutto bravo: lì dietro comandava
lui.
Sacchi, dopo averlo avuto contro in finale di Coppa Intercontinentale, disse:
“Questo me lo compro domani se si può”.
La
Colombia però aveva iniziato male il Mondiale. Nel match d'esordio contro la
Romania era stata messa ko da tre gol di Raducioiu. Il 22 giugno il secondo
incontro, avversario i padroni di casa degli Stati Uniti. Al 34' del primo
tempo, su un cross sbagliato del mediano statunitense Harkes, Escobar
interviene in spaccata all'altezza del dischetto del rigore deviando il
pallone, destinato al fondo campo, al di là della propria porta, difesa da Cordoba.
Escobar rimane a lungo disteso sull'erba, impietrito dallo sfortunato episodio.
Sui giornali
colombiani, all’indomani della sconfitta, Andrés scrisse:” Sono il più deluso
di tutti, deluso come voi. Signori però, la Colombia, e soprattutto la vita,
continua.”.
Per Escobar,
purtroppo, non fu così.
Tornò nella sua
casa di Medellin ma, in cuor suo, continuava a pensare a quel Mondiale che, con
il senno di poi, non avrebbe mai voluto giocare. Non era più il solito ragazzo
solare, era giù di morale a tal punto che la sua ragazza non lo riconosceva
più. Una sera, per cercare un po’ di spensieratezza, decise di uscire, e andò
in un locale: “El
Indio”. Nella città la situazione non era delle migliori: da qualche
mese era morto il grande sovrano del narcotraffico, Pablo Escobar, in una sparatoria con la polizia, e, come spesso
succede, con la morte di una grande monarca, si crea un clima di tensione e
inquietudine.

Nel parcheggio de
“El Indio” però è avvicinato da
un gruppo di uomini che sembravano attenderlo e che iniziano ad aggredirlo con
insulti. Gli ricordavano che loro e molta altra gente in Colombia avevano perso
tantissimi soldi, scommettendo sulla loro fortissima squadra. Si scatena così
una discussione ai limiti della rissa, incentrata proprio sull'autogol in cui è
incappato il difensore nella partita dell'esclusione dalla Coppa.
Ma la discussione
dura poco, perché gli uomini passano subito dalle parole ai fatti. Estratte le
pistole, fanno fuoco a ripetizione su Escobar, che viene trasportato da un taxi
all'ospedale di Las Palmas. Inutilmente, perché ci arriverà cadavere. Gli
uomini fuggono poi a bordo di due fuoristrada, uno dei quali, una Toyota, viene
ritrovato più tardi dalla polizia, abbandonato nei pressi dell'aeroporto. Si
tratta di una jeep rubata e fornisce la certezza che l'agguato a Escobar era
premeditato e organizzato dalla malavita. Andrés non viene ucciso, viene
giustiziato: dodici spari, ognuno seguito da un urlo: “Goal”. L’assassino si chiama Humberto Munoz Castro ed è stato
condannato a 43 anni di carcere ma nel 2005 è uscito per buona condotta. Ha
sempre sostenuto di non essere un sicario, affermando che il suo era un “raptus
di delusione”.

Per anni, nessuno
se l’è sentita di indossare la “Dos”, la maglia n.2 della Colombia, la
maglia di Andrés. Nessuno, fino ad un altro leader, un altro uomo con la
U maiuscola: Ivan Ramiro Cordoba.
Nessuno,
però, si è dimenticato di Andrés!
Nessun commento:
Posta un commento